La Nuova Tribuna Letteraria, Nr. 90 – II trimestre 2008
Renzo Cremona, SEDICI SETTIMANE
di Stefano Valentini
La scrittura di Renzo Cremona, che nelle opere recenti si era svincolata dalla dicotomia poesia-prosa per approdare ad una prosodia narrativa di particolare efficacia, torna in questo piccolo libro (che è edizione bilingue, con originale in italiano e traduzioni in greco di Keti Maraka) alla misura del verso e della lirica breve o anche brevissima. Si tratta, di primo acchito, di poesie ispirate ad un rapporto d’amore, in genere di delicata semplicità, una ricerca di purezza che sembra per un momento voler accantonare molta della complessità insita nelle precedenti opere dell’autore veneziano: “i tuoi occhi / sono circondati dal mare. / è da ieri notte / che continuo a navigare”, “hai gli occhi grigi e verdi. / come la vita / a finestre chiuse. / come la vita / a finestre aperte”. Ma il dato realistico ha anche risvolti allegorici, sin dal primo lacerto: “hai aperto il libro e mi hai mostrato / la mappa della mia città / che volevi conoscere. / te ne ho descritto le strade. / te ne ho raccontato l’inizio e la fine. / a metà / mi ero già perso”, secondo uno smarrirsi che è amoroso ma anche intellettivo, “diventai sordo // e negli orecchi // di colpo i boschi / smisero di mormorare // il vento / di stormire”. Perdere i sensi come perdere il senso, dunque, per trovarne uno nuovo, dettato dall’emozione del sentimento che nasce. Un’emozione che è cammino e attraversamento (“l’altro lato del tavolo / lo raggiungo in piena notte”, un’idea che molto piacerebbe al Magrelli del primi anni Ottanta…), strascico sui fondali (“ci sono nella notte reti profonde”), innalzamento (“mi alzai sulle punte / per poterti baciare meglio. / e da lì, dall’alto, / vidi d’un tratto il mondo intero”), ebbrezza (si veda la poesia XVIII, vero gioiello dell’intera raccolta). Gli amanti divengono “un’isola perfetta”, la pioggia più volte evocata e presente diviene una metafora dello stesso rapporto con le sue diverse attitudini (a dirotto “intransitiva”, obliqua “subordinata e congiuntiva”) o addirittura una sorta di clessidra per misurare “i minuti ad ascoltarla”, quando “nessuna distanza / sembrò più separarli”. L’annullamento nell’altro è compiuto: “mi indicò il cielo. // e vidi alzarsi il braccio / col dito puntato, // solo che della luna / non mi importava più niente / ora che avevo la sua mano // di fronte ai miei occhi”, ma è un annullarsi che è anche condivisione in quanto “se proprio buio dev’essere // che sia quello in cui / le nostre mani si toccano fino all’alba. // quello delle parole / senza fine”. La silloge si chiude così: l’eternità possibile, il futuro esplorabile sono affidati alla parola, unico vero bene (e potere) di un poeta anche quando è parola applicata alla vita.