Pubblicazione: gennaio 2010.
Editore: Edizioni del Leone (Spinea, VE).
Codice ISBN: 978-88-7314-286-7.
Immagine di copertina: I sette vizi capitali: ira, di Pieter Bruegel il Vecchio.
Note: suite in ventidue parti per monologhi drammatici in forma di prosa poetica. Il libro è stato scritto nel 2007. Dal 2014 è disponibile anche in versione elettronica.
accidia.
fluttuavano, in quei giorni, i momenti di silenzio. ma non era silenzio quello in cui vivevamo, o, meglio, trascinavamo le reti dei minuti; era piuttosto l’assenza gelatinosa di appigli che si animava dentro di noi e si appiccicava, con perseverante disordine, alle membrane sottili della volontà.
erano le direzioni confuse a scoraggiarci, ma anche le tante strade, e le nebbie protratte che si addensavano come colla fumosa dentro le vene. erano, i mattini, delle derive incostanti, e nulla valeva davvero la pena; tutto, per noi, fu troppo.
quale che fosse il significato della forza che vedevamo negli altri, non fummo mai capaci di ritrovarlo dentro di noi, se non in forma di congegno inceppato che anche le molle aveva pigre.
era la fine del mondo e noi non lo sapevamo. bevevamo, da giorni che erano ormai vecchi, l’acqua dello scompiglio. fu così che il tempo ci sfuggì di mano, fu così che rimanemmo con i palmi colti dallo stupore; e qualcun altro visse al posto nostro, qualcuno che nell’acqua ebbe l’accortezza di guardare e riuscì a vedere, in lontananza, mattini lucenti.
il giorno non sapeva più da che parte volgersi, ormai. era la fine del mondo, dunque; e noi non ce ne accorgemmo.
superbia.
scrivevamo in quei giorni lunghi saggi sull’ordine del mondo, manuali di ortografia in cui redigere le regole per una corretta trascrizione dei sistemi verticali. ci faceva compagnia, la notte, il silenzio delle vette che ci eravamo scelti, ma anche l’altitudine esagerata dalla quale avvistavamo i nemici arrivare, sicuri della roccia che si ergeva a sostenere i bastioni turriti e i merli della lontananza.
bastava un nulla perché, allertati dal rumore delle tarme, ci destassimo dal sonno, e le fondamenta ci sembrassero d’un tratto più fragili, meno stabili, quasi pericolanti.
si muoveva pencolante una finestra, all’esterno, traballava aperta sulla distanza incolmabile con il paesaggio. il ministro delle miniere ci impediva di estrarre oro dai nostri sotterranei, e i giacimenti finivano per invecchiare.
quanto abbiamo amato essere così lontani, quanto poco ci è mancato il mondo, così infimo e vile da sporcarci le scarpe, appiccicato alle suole nelle mattine di umidità, dopo un temporale.
la pioggia ci protesse sempre, come una cortina invalicabile, e fu più grande il nostro tonfo quando, il giorno del crollo, di colpo precipitammo giù sulla terra e le zolle ebbero riempito le nostre narici di melma e di bosco, quasi a volerci tenere per sempre con loro.