Pubblicazione: settembre 2015.
Editore: LCE Edizioni (Castelfranco Veneto, TV).
Collana: Scritture.
Codice ISBN: 978-88-98613-54-0.
Note: il libro, interamente scritto in italiano e chioggiotto tra il 2011 e il 2015, è articolato in quaranta quadri seguiti da un epilogo e un dialogo filosofico in dialetto in forma di testo teatrale. Dal 2016 l’opera è disponibile anche in formato elettronico.

stravedamènto

si era svegliato prima del solito quella mattina. aveva dato un’occhiata al soffitto e, ancora nella penombra, era riuscito nell’intento di ricucire la testa là dove la notte prima aveva fatto entrare il sonno. dopo di che aveva colmato i buchi nella memoria servendosi del solito spago sottile e, riparato così a dovere, si era finalmente alzato. si era alzato dal letto, però, con la sensazione sgradevole che da qualche parte qualcosa stesse avvenendo, e che questo qualcosa stesse accadendo suo malgrado. stava rimanendo indietro – pensava – si stava perdendo non sapeva neanche lui cosa, ma aveva quasi l’impressione che altrove la vita avesse cominciato a giocare in sua assenza una partita che lo riguardava e che sul calendario di quella stesse arrivando inattesa l’estate. il tutto a sua totale insaputa.
s’infilò quindi le ciabatte e andò in cucina, ma niente. aprì la porta dello sgabuzzino e per un attimo fece luce in mezzo allo stordimento delle polveri: nulla neanche lì. si diresse pertanto verso il bagno, dove spalancò la finestra e alla fine vide.
vide sull’acqua, sul filo bianco della lontananza, il vento perdersi in direzione delle onde che arrivavano dal mare, le isole sparse dietro gli occhi, il forte diroccato con i cespugli, il pontile in attesa. vide un peschereccio portarsi dietro i fantocci del suo passato e fare roteare sopra la propria testa la disperata gioia dei gabbiani in corsa per afferrarne qualche brandello gettato nell’acqua.
e vide, subito dietro, i luoghi che lì non dovevano essere. oltre l’ottagono delle saline spiccavano inopinati i comignoli delle fabbriche e gli altiforni delle acciaierie che lì non dovevano essere, e che così alti non potevano essere. spuntavano anche i fumi, che lì non dovevano essere. persino quelli. e si protendevano verso l’alto dove non avrebbero dovuto essere, su distanze troppo sospette per essere vere. e più in là vide stagliarsi algide e aguzze, svettando innevate per l’immenso mattino della parola, le cime dei monti a portata di mano. naturalmente dove non avrebbero dovuto essere. erano proprio lì davanti a lui, in un luogo dove mai erano state. i monti che si erano avvicinati, si erano fatti grandi, si erano ingigantiti fino a forzare lo sguardo. o era lui ad avere accorciato le distanze? era alla fine arrivato il momento di tirare fuori dal baule l’equipaggiamento da montagna che aveva sempre tenuto pronto per la partenza?
e mentre si chiedeva questo, vide più avanti. ed ebbe come l’impressione di sentire un aquilone nei pensieri, di stare a guardare un miraggio di cose che gli assomigliavano ma non erano lui, una fata morgana di domani mai avverati o non ancora realizzati, di vedere finalmente quello che avrebbe voluto essere e di potere afferrare e fare suoi i giorni che avrebbe voluto avere. li vedeva fluttuare e schiudersi, nella distanza, colmi di promesse, sempre inafferrabili eppure lì, a un colpo d’occhio, visibili, visti ma non toccati, visti ma non raggiunti. e lui lì con l’attrezzatura per i monti eppure ancora al di qua del mare.
e ora che poteva prendere tutto e andarsene, adesso che sapeva che sarebbe bastato un solo tiro di schioppo per arrivare fino alle cime e sparire per sempre da quel breve e corto giro di case e balconi, da quel discorso ingarbugliato di calli ingrate e ossa putride che non voleva concludersi, ora che – non c’era alcun dubbio – vedeva la meta e non gli sarebbero più servite le carte, adesso che i luoghi gli pesavano così tanto da volersene disfare all’istante, nel momento in cui qualcosa stava davvero accadendo e gli si offriva così, subito, aperto, grande, sconfinato, chiaro, acceso, ebbe d’un tratto nostalgia di quelle strade avare e inconsapevoli; ed ebbe paura, paura di trovarsi in mezzo alla laguna con tutto il necessario per i monti e vedere sparire di nuovo ogni cosa, volatilizzarsi così com’era venuta. o forse ebbe per un attimo timore di raggiungerle davvero quelle cime, e temette che il mondo, da lassù, non fosse così come se lo sarebbe aspettato.
gli faceva paura tutto questo. lo faceva tremare da capo a piedi. eppure lo aveva sempre desiderato: anche le altre volte in cui i monti lo erano venuto a trovare, anche quando si erano presentati a lui negli anni lontani dell’infanzia, lo aveva desiderato intensamente. aveva desiderato essere altrove, muoversi per strade sconosciute, esistere da qualche altra parte, stare tra gente che abitava il reame sconfinato dell’indifferenza. poi, allo svanire di questi miraggi, al comprendere le cose, quando gli avevano fatto capire quanto meglio sarebbe stato addomesticare le bestie che si portava dentro, il suo mondo si era fatto irrimediabilmente più piccolo e angusto. per le vie i giorni avevano preso a girare sempre con lo stesso sguardo spento e sempre con la stessa andatura zoppicante.
ma questa volta fu diverso. questa volta la visione gli fece male come mai aveva fatto prima, gli si insinuò in corpo prima che potesse avvertirla arrivare, gli si attorcigliò al cuore stringendogli il petto, gli salì dalle mani alla testa e poi giù, dalle spalle verso i piedi che cominciavano a muoversi, e spinse il suo desiderio di lontananza a farsi vicino, la sua cecità a farsi vista, i suoi occhi quasi un grido, e a chiedersi.

cosa si fosse chiesto a quel punto non lo sapremo mai. lo vedemmo non più di un’ora dopo scendere di casa e andare verso la riva, avvicinarsi alla barca che teneva ormeggiata da anni senza averle mai fatto conoscere gli spazi, caricare a bordo un grosso sacco e un involto, slegare la cima della corda che stringeva la barca e spingersi poi verso il centro del canale. e da lì, lieve come quelle promesse che sappiamo di voler fare a noi stessi ma che temiamo di non avere il coraggio di mantenere, decise che il momento era arrivato.

non lo vedemmo più, né di lui si ebbero notizie nei mesi e negli anni che seguirono.
c’è chi dice si sia perso in mare, uscito dalla laguna per la disperazione delle correnti, e che il corpo se lo siano presi i pesci, anch’essi affamati di altrove e altronde. c’è chi invece lo dà ancora per vivo, da qualche parte e al sicuro, in preda alla vergogna del ritorno e in un limbo a metà strada tra quello che aveva faticato a perdere e quello che aveva temuto di non raggiungere. ma c’è anche chi, avendolo visto dalle finestre spingersi molto più in là della linea raggiunta dagli occhi, sentì all’improvviso che la cosa riguardava anche lui, ne ebbe spavento e chiuse le imposte preferendo non vedere. si dice ancora che sia stato proprio così che sparì dall’orizzonte degli altri e raggiunse i monti prima che quelli svanissero, e che da allora, intento a calcolare le direzioni dei venti e i livelli delle maree, tutto compreso nel desiderio di andare e nella terribile paura di arrivare, non sia più ricomparso ad alcuno.

stravedamènti minori. i quarti. (la metamorfosi)

tuto s’un momènto, mèntre che dopopranso a se gèra apena colegao e a provèva a resegare le manfrine de ancuo, de gèri e de gèri l’altro, gh’à parso còme che ghe se verzesse un luminale indrento ai copi del servèlo e ghe vegnisse da fuòra odore da pan.

un bel bossolao a xé deventao, che co i l’à visto sora de le covèrte qualcun a se l’à messo de scondon inte la scarsèla e a se l’à magnao.

ghe xé mondo de manière de lassare le strasse, l’à da avere pensao, e ghe ne xé ancora de pì de fenire fruai. mègio morsegai che mufai, l’à apena fato in tèmpo a dirse prima che de elo no restesse altro che tòchi, frégole, odore da pan pèrso per le calesèle e becao dai colombi: un orlo de tèmpo andao a remengo.

(versione italiana)

all’improvviso, mentre dopopranzo si era appena coricato e provava a raddrizzare la confusione di oggi, di ieri e dell’altro ieri, gli sembrò come se gli si aprisse un lucernario dentro le tegole del cervello e che da lì uscisse profumo di pane.

un bel bossolà è diventato: hanno fatto appena in tempo a vederlo sopra le coperte che subito se lo sono messi in tasca per mangiarselo di nascosto.

ci sono un sacco di modi per lasciarci le penne – deve aver pensato – e ce ne sono ancora di più per finire consumati. meglio morsicati che ammuffiti, ha appena fatto in tempo a dirsi prima che di lui non restassero altro che pezzi, briciole, odore di pane perso per le callette e beccato dai piccioni: un margine di tempo andato in malora.