Discorsi attorno a furore e mito. La poesia di Renzo Cremona
In occasione del reading “Prufrock spa incontra il poeta Renzo Cremona”, 10.03.2006
di Luca Rizzatello
Il furore.
su di un corpo vivo.
che sia sempre leggera la tua mente
e non pesi sul tuo corpo
che sia sempre leggera
e che leggeri mantenga quindi i tuoi piedi,
affinché non affondino
col loro dolore
nel fango e nella sabbia.
[…]
In un saggio del 2002 Mauro Giachetti [1] ha acutamente messo l’accento sulla grecità tanto formale quanto sostanziale della poetica di Renzo Cremona. Tuttavia ritengo sia opportuno integrare tale analisi prendendo in considerazione altri due filoni letterario-filosofici di fondamentale importanza. Mi riferisco ai libri sapienziali veterotestamentari e alla poesia latina neoterica.
Il testo poc’anzi citato, in apertura della silloge Lettere dal Mattatoio (Edizioni del Leone, Venezia 2002), emblematizza con estrema fedeltà una delle rotaie percorse dall’autore nello sviluppo dei suoi ultimi tre lavori (Lettere dal mattatoio – per l’appunto -, La Pergamena delle mutazioni e Cronache dal centro della notte): l’esperienza erotica intesa come conoscenza. Sarebbe un errore, oltre che un vero peccato, confondere il concetto di leggerezza con il concetto di superficialità. Questa differenza emerge tanto nei versi del Qohèlet (‘o vanità immensa: tutto è vanità‘ [2]) quanto in quelli di Catullo (‘Vivamus, mea Lesbia, atque amemus‘ [3]). Il punto è che le porte del cielo non si possono raggiungere se non attraverso l’esperienza, nella ricerca di un altrove che a seconda delle contingenze è sentito come una necessità (Il viaggio. Sono stato spesso altrove/ per non essere/ qui/ dentro.//) o come una evenienza da scacciare in tutti i modi (Breve discorso sui fiori. È perché hanno sempre visto il telo di plastica di una/ serra/ che i fiori che ammiri sono così belli/ e/ hanno un profumo tanto delicato./ Altrove non sarebbero sopravvissuti.//). Con ogni probabilità questo dissidio è determinato dalla consapevolezza del fatto per cui possa esistere una terza variabile, quella del non ritorno (manicomio. cercando una strada trovò quella/ che portava/ dentro di sé./ venne un giorno e non riuscì più a tornare.//). Ma soltanto in seguito a una meditazione che prenda in considerazione ogni eventualità è possibile compilare un taccuino zeppo di appunti di vita che si possa configurare di volta in volta nelle forme di un quadretto allegorico (Formiche. Strato su strato/ briciola su briciola/ costruendo/ ci si barrica contro la paura di una nuova alba./ Un solo piede/ e finisce tutto.//; ma anche: Lezione d’asilo. Quante cose insegna il brutto anatroccolo diventando/ finalmente un cigno./ C’è da chiedersi quante ne avrebbe insegnate/ se fosse rimasto quello che era.//), di una essenziale sequenza di consigli per l’uso – per non dire di Proverbi – (Arredamento. Perché la cassetta delle lettere non gridi di solitudine/ incollare francobolli: qualcuno prima o poi occuperà quell’angolo/ vuoto./ Perché gli orecchi non abbiano a patirne i richiami/ spegnere la mente: prima o poi qualche rumore riempirà l’aria./ Perché lo stomaco non debba sopportare una digestione nulla/ riempirlo di attese: uno stimolo, da qualche parte, verrà metabolizzato/ e reso vita./ Per non cadere preda del passato/ distogliere lo sguardo dalla memoria, lo specchietto retrovisivo,/ già un fossato sul ciglio della strada è in agguato.//), di una carta per seguire i percorsi già segnati (sogno di una notte di metà autunno. […] riconosco le linee tracciate sulla carta: sono le rotte di navigazione/ sommerse dai naufragi. […]) o per tratteggiarne di nuovi, seppure nella tragica scoperta della loro inservibilità (memorie di un cartografo in carcere. per poter trovare la strada/ tra gli anditi e le penombre di questa prigione/ tutta la vita ho atteso alla mappa che ho tra le mani./ terminarla mi è costato gli occhi/ ed ora che le mie dita seguono le sue linee appannate/ ecco che/ è entrato uno spiffero e/ mi ritrovo a brancolare nel buio. con la mappa muta/ e una lanterna/ spenta.// [4]). Un’inservibilità tutta terrestre che funge da sostrato per sviluppare una riflessione pertinente a un altro ordine di realtà, poco importa se sovraumano o subumano (Capodanno. Intrattenere conversazioni con i vicini./ Cogliere/ nella parola il nulla nascosto./ Intrattenere conversazioni con la neve./ Cogliere/ nel nulla la parola nascosta.//), se superiore (In un monastero bizantino. […] L’autunno è alle porte,/ lo sento/ dal ricordo che si è fatto più acuto, dalla tua/ immagine/ che torna a trovarmi come un tempo. [5]/ E nel mio sogno vedo/ orme/ di viaggiatori medievali/ in cammino verso le frontiere del sole,/ nell’allucinazione indistinta del dormiveglia/ intravvedo/ forse/ me stesso/ tra le righe di un manoscritto/ in mezzo all’inchiostro delle mani e nella follia dei/ miei giorni/ navigare alla deriva/ nelle geografie dell’estasi.//) o infero (cronaca dal margine di un’insolazione. […] lente e fugaci/ misteriose e buie/ come segni incisi in epigrafi etrusche, attendendo il momento/ dell’incontro/ confondono l’espressione di una certezza alle parole,/ il senso della notte al giorno in arrivo,/ il profilo vago ed instabile di un sogno che sfugge/ nel buio/ che precede/ una caduta.//).
Posta in questi termini la questione sembrerebbe condurre ancora una volta alla conclusione per cui qualunque sia il grado di esistenza in cui si sia immersi, qualunque sia la natura in cui esso si manifesti, non possa essere consentita la conoscenza dell’altro da sé. O meglio, un contatto con l’altro da sé può avvenire, ma soltanto di riflesso. E le manifestazioni sono tra le più svariate: immagini distanti nel tempo e nello spazio (Bisanzio. […] Quasi sempre è un corridoio,/ e succede di vedere/ la luce di un televisore acceso altrove/ che illumina immagini di qualcosa che io non sono più,/ in una stanza che non riesco a raggiungere, per quanto/ continui a camminare,/ dove si pronunciano parola/ che io/ non/ conosco.//), interferenze indistinguibili (persefone. […] accendo la radio,/ ma le frequenze/ rimandano solo l’eco/ di quello che è stato per me/ il tuo nome […]), chiamate senza risposta (solo una serie di telefonate ad un’amica, quella notte stessa. quattro, cinque, sei telefonate una di seguito all’altra alle quali l’amica non sarebbe mai riuscita a rispondere, per il semplice fatto che aveva il cellulare spento. […]), pareti impenetrabili ([…] solo che quella di là è una stanza insonorizzata in cui non passa nemmeno la fessura di una sillaba o di un rumore. e in quella stanza, assolutamente isolata da tutto il resto – anche se in che cosa consista questo resto non si sa ancora di preciso – c’è sempre qualcuno che aspetta, ed è lui. aspetta che bussino, questo deve fare. nient’altro. e rimane pazientemente all’ascolto, solo che non sa di non poter sentire nulla. […]).
E invece no. Perché da questa premessa – oggettivamente sconfortante – è possibile trarre la conclusione che l’esperienza erotica – esperienza soggettiva ma che non può fare a meno di un interlocutore – possa salvare dall’annichilimento e permettere il sondaggio dei territori dell’oltre, attraverso un contatto diretto, questa volta. Si tratta di una modalità di conoscenza che si origina dall’osservazione creativa dell’io; con ciò si intende il ruolo portante svolto dall’idea ricorrente della metamorfosi. Un atto che prendendo le mosse dalla negazione dell’antropocentrismo (Sull’antropocentrismo. “L’essere umano – sosteneva – è dotato di sentimenti,/ un cane no.”/ Come se fosse un merito averne./ Il cancro si è premurato di farlo abitare sotto terra,/ dove ora sta/ senza alcun sentimento./ Proprio come un cane.//; ma anche: Nuovi discorsi sull’antropocentrismo. “Numerosi esperimenti dimostrano che,/ essendo del tutto assente/ nell’animale – o bestia che dir si voglia -/ l’intelligenza, esso procede per associazioni.”/ Queste le parole dell’insegnante di liceo X,/ abituata solo tra uomo e intelligenza/ a fare/ associazione.//) prosegue il suo percorso evolutivo in una trasformazione dei connotati tanto fisici (ho messo radici. non mi potrai più strappare/ e/ lasciare appassire dentro una/ tasca.//; ma anche: zona d’ombra. […] perché sento radici che non conosco stringermi a terra […]) quanto psichici (zona d’ombra. […] tra il brulicame dei pensieri impazziti/ che schizzano via e si snocciolano come acini […] [6]) per approdare a una vera e propria incarnazione del nome/segnicità del corpo ( spalancai la bocca/ per respirare il cielo./ ingoiai invece pioggia e fango./ vomitai una parola mal pronunciata e vidi:/ quella parola/ ero io.//) [7]. E l’interlocutore a cui si faceva riferimento diventa parte attiva di questo processo di mutazione globale, nel ruolo di destinatario privilegiato (lo schiavo bianco. bello/ come il sole sei,/ amante mio,/ come le rocce di un promontorio scosceso, come/ una pianta che cresce aspra nel deserto/ in una sete incontenibile/ di/ luce.//) o forse di autore (rituali. hai le labbra confinanti con la mia sete/ e per bocca/ un enigma/ circoscritto da boschi selvatici./ vivendoti accanto/ radici mi sono cresciute sotto i talloni/ che ora abbracciano le tue/ e ho come la sensazione di sentire pronunciare il tuo sangue/ nelle mie vene. […]) della contaminazione. Il passo successivo è quello della fusione, ma parlare di fusione di due individui sarebbe riduttivo, oltre che lontano dai fatti: si tratta di due trasfigurati (bracconieri. il mio laccio ti stringe/ e finalmente/ invado le tue labbra,/ conficcato dentro di te/ come un rullo di tamburi/ ecco che io/ mi mescolo alla tua terra/ come fa il fango con l’acqua,/ io sono il nemico che tatua la tua pelle/ il tuo odore è il mio odore,/ il mio fuoco è il tuo fuoco,/ stretto e vivo attorno al senso del tuo corpo/ che mastico/ mordo/ tengo/ ho.// ma anche: hai il capo percorso da cespugli/ e le mani da/ foreste,/ e la tua bocca/ conosce il linguaggio degli alberi./ lo capisco dal tuo corpo nudo/ che respira fondo/ l’amplesso con le mie radici,/ lo sento da questo sangue/ che nella notte percorre la tua pelle/ sconfinata.//) che gradualmente diventano un solo trasfigurato. Diventano una parola. (se il tuo corpo riesco ad impararlo/ a memoria,/ mi chiedi?/ hai una lettera che tengo tra i denti/ ed una/ che mordo coi piedi:/ in mezzo sto io/ e ti recito a memoria./ tutto il mio corpo/ in un colpo/ ripete il tuo nome.//). Ma non bisogna mai scordare che l’eros è furore. Alfonso Traina [8] fa notare che “la passione è distruttrice dell’ordine, è la rivalsa del privato sul politico, dell’individuale sul sociale, del principio di piacere sul principio di realtà. Impegnando la totalità dell’essere, rovescia la gerarchia dei valori”. Secondo il sociologo francese Emile Durkheim il principio ordinatore della società e delle coscienze è da ricercarsi nel sacro: scorrendo i testi, quasi a confermare empiricamente l’inferenza, si percepisce l’emergere straripante di un erotismo impregnato di sacralità. E lo sviluppo di questo connubio si gioca ancora una volta su differenti livelli. Ad un primo livello formale si scoprono assonanze con il Cantico dei cantici, nell’incessante lode della bellezza di chi si ama e del piacere che deriva dall’oscillazione tra lontananza e incontro (il già citato lo schiavo bianco; ma anche: del rosmarino hai l’odore,/ e sulle labbra/ porti racconti/ di ciliegie selvatiche/ e di amarene./ è un lungo filare di viti la notte/ ed ogni ora è una vendemmia/ in cui i miei piedi/ affondano nel tuo petto/ e io/ pigio il tuo corpo.//). Ma il sacro per essere riconosciuto come tale ha bisogno di un linguaggio in cui venire fissato (gerusalemme io non l’ho mai vista […] un filatterio infatti/ mi stringe il braccio/ in cui stanno delle sacre scritture:/ sono il luogo in cui/ è tracciato il percorso dei nostri baci,/ la strada delle nostre parole congiunte/ in cui risplende/ il tuo nome/ luminoso.//), patrimonio esclusivo dei membri che ne beneficiano (vangelo apocrifo. […] beato colui che incide il tuo labbro,/ colui che conosce il senso dei riti segreti/ che si celebrano/ ai confini/ della tua/ bocca.//; ma anche: […] e mi ardono nelle vene/ le tue parole insepolte,/ accese come braci antiche e/ piantate in forma di chiodi infetti,/ come/ nomi/ che si pronunciano nelle tenebre/ in liturgie sconosciute.//), ha bisogno di un luogo in cui venire coltivato (lasciami/ violare/ il sacro suolo/ del/ tuo/ territorio,/ lasciami/ entrare,/ lascia/ che le mie parole/ pronuncino/ il tuo nome.//; ma anche: sacro sei/ e non puoi essere toccato con mano./ solo le mie parole timidamente/ possono lambirti i confini/ e ne fanno un promontorio/ gettato sul mare in tempesta. […]) e ha bisogno di elementi da condividere (oggi bevi, amante mio,/ e compiamo insieme/ questo/ rito,/ il rito del nuovo giorno che arriva,/ il rito delle nostre mani che s’incontrano./ che io sia per te sconosciuto,/ che tu sia per me sconosciuto/ che per la prima volta/ vede/ l’altro.//; ma anche: come preda/ vinta dalla sabbia e dal vento/ come fiamma di fuoco rosso o/ vino di resine e mirto/ in pasto/ io ti do/ alla mia bocca,/ in pasto/ tu mi dai/ alle tue labbra.//).
che sia sempre leggera la tua mente
e non pesi sul tuo corpo
Così si legge nell’Antico Testamento:
I tuoi seni sono come due caprioli,
gemelli di gazzella,
che pascolano fra i gigli. [9]
E così nel Canto 84 di Catullo:
Hoc misso in Syriam requierant omnibus aures;
audibant eadem haec leniter et leviter,
nec sibi postilla metuebant talia verba.
(Fu inviato in Siria; le orecchie riposarono/ riudirono parole lisce e lievi/ senza temere più le voci orrende [10]).
Il mito
“I miti insegnano che se guardi dentro di te puoi iniziare a recepire il messaggio dei simboli” [11]
Se c’è un leitmotiv che attraversa tutta l’opera di Renzo Cremona, questo è senza dubbio il mito. Ovvero l’altra rotaia percorsa.
Non è un caso che la prima poesia della prima raccolta – Foreste sensoriali (Edizioni del Leone, Venezia 1993) – sia intitolata Il volo di Icaro (A sera siedo qui./ Osservo il cielo e disegno/ le nuvole/ stanchi rigonfiamenti d’aria./ Le mie mani ricolme d’argento./ Cerco un modo per raggiungere il sole, ma/ la distanza è incolmabile./ Volo d’Icaro,/ turbinio di polvere d’oro.//) e ad essa segua, a breve distanza, un componimento che ha come titolo Narciso (Immobili/ si dileguano trasparenze d’argento./ Muoversi d’acqua. Il fondo/ non lo vedo più./ Confondo i tuoi segni. Espansione/ d’estasi. Non distinguo più i nostri confini.//). La matrice classica – indiscutibilmente preponderante – è tuttavia solo una delle molteplici facce che ci si presentano davanti: le narrazioni infatti possono germinare da episodi storici (Africa. “E’ vero – dice la cartolina -/ che la realtà vince di mille volte un’idea./ Ma occhi e narici mi avvertono che/ anche un’idea/ a modo suo/ vince./ E che nel confronto questo deserto non è diventato che uno/ scatolone/ di sabbia.”//), reminiscenze scritturali (Vangelo apocrifo. dopo di che incisi il tuo labbro e/ vi raccontai/ lentamente/ il mio/ nome. […] [12]) e suggestioni oniriche (la piscina. se ci penso/ temo di sognarlo/ se lo sogno/ temo di nuotarci./ ogni volta al sorgere del sole notturno/ ecco i rami che arrivano/ e/ sogno di nuotare in una grande piscina./ e i miei piedi lo capiscono: c’è solo la superficie/ ma/ manca il fondo.//)
Il legame tra mitopoiesi e onirismo diventa sempre più stretto, addirittura inscindibile [13]. Le motivazioni possono essere sia d’ordine psicologico – prendendo la fisionomia di una coazione a ripetere come nel caso della poesia dimensione degli specchi – (tanto li ho attesi, nonostante la sabbia e il silenzio, che ora/ sono qui davanti a me,/ cresciuti su di una terra dove non pensavo potesse più/ nascere erba./ e non sono né sogni/ né realtà, ma solo ombre di luce e/ messaggi perduti. sono/ i pensieri escoriati e le/ lettere mai giunte a destinazione in cui le mie dita/ affondano/ consapevoli di lacerare il presente, luoghi in cui/ danzano mani/ che non mi hanno mai accarezzato, pensieri e corpi/ che ho sempre rincorso e/ non ci sono mai stati mentre io,/ disteso sull’equinozio, all’incrocio dei miei e dei tuoi sensi,/ guardo/ questo mondo d’acqua e di/ liquide immagini/ dove giace, come sul fondo di un lago,/ una casa/ abitata da barche naufragate o/ da occhi di bambole cadute in un coma profondo,/ come sulla soglia di un volto graffiato/ dal passato che prende lentamente forma/ e di cui non riesco a decifrare i contorni.//) che d’ordine estetico (delle metamorfosi e d’altro. in valli disabitate/ s’inerpicava/ il tuo ricordo, ma venne la notte/ e la mia memoria oscillante/ tu la estirpasti/ quel giorno in cui il buio/ ti sbarrò il passo.//; ma anche: Il fondaco. Eppure, anche verso le prime luci dell’alba/ non era nebbia/ quella davanti a noi./ Erano gli occhi/ che/ ci erano stati bendati.//).
La sezione Esperienze di pre-coma: storia di Ofelia/Coma profondo, presente nella raccolta La pergamena delle mutazioni è la summa di quanto detto sin ora. Nello svolgersi di diciassette componimenti vengono presentati sedici personaggi [14] attraverso l’utilizzo del metodo mitico. Ma non si tratta qui della sterile applicazione di una tecnica ormai collaudata, in quanto le chiavi di lettura sono disseminate su diversi livelli. Occorre pertanto andare con ordine. Ofelia – il primo personaggio presentato (anche se sarebbe più corretto dire che si presenta, in quanto ognuno di essi si racconta attraverso un monologo) – in controtendenza rispetto agli altri, non appartiene al mito di ascendenza classica. La spiegazione è di carattere strutturale ma anche concettuale. Concepito come una spirale verso l’inferno (Tiresia), solo un dramma moderno può fungere da anticamera per drammi antichi. Si badi, gli attributi moderno e antico hanno qui una connotazione solo marginalmente cronologica. Si tratta piuttosto delle vestigia di miti che a livello profondo non hanno età, in quanto espressione della coscienza degli uomini svincolata da una posizione nel tempo. L’eterogeneità dei materiali impiegati per la costruzione delle storie è legata a doppio filo alla modalità di concepimento dell’inferno. Tante le storie, tanti gli inferni. Tante le storie, e nessuna di essa che sia privilegiata o svantaggiata [15] rispetto alle altre, come a dire che non esiste un disegno provvidenziale entro cui iscriverle e tanto meno un controllore super partes.
Tre sono gli elementi che accomunano tutti i protagonisti nella loro sventura: la perdita della luce, la perdita della voce e la perdita del sonno.
La luce.
Consideriamo le ricorrenze: il termine notte compare 15 volte, buio 5 volte, tenebre 2 volte. È ancora più significativo il fatto che per 4 volte ricorrano termini appartenenti alla sfera della cecità: in chiusa in questo labirinto di disinfettante e ([…] lasciandomi agli occhi persino le bende […]; ma anche: […] nemmeno lei vuole più una sacerdotessa cieca […]), in mi fa compagnia la luce azzurrina ([…] da molto prima che mio padre si accecasse […]), in achille ([…] e gli occhi colmi di buio […]; ma anche: […] lo accieco […]), in ecuba ([…] scrutano con occhi vuoti […]). Questo significa che il buio è inteso come uno stato d’animo, come un qualcosa che originariamente esterno ai personaggi si è, più o meno rapidamente, radicato al loro interno. Alcuni di essi lo considerano come un vero e proprio status (cerbero. eccomi, io sono la notte. […]) o come una condizione irreparabile (euridice. non interrogarti sull’altezza dei grattacieli/ perché ti perdi nelle parole del mattino,/ orfeo,/ in quella luce più buia/ delle mie tenebre. […]), altri cercano di trovare una soluzione, per quanto disperata (penelope. […] ecco perché da allora trascorro notti inesausta/ cercando di capire quale destino io debba leggere […]; ma anche: clitemnestra. […] ancora Ifigenia che la notte batte alle finestre/ e di netto ti mozzo le mani,/ di serpi circondo le tue dita/ cinte di spine.), altri ancora fanno coesistere in sé entrambi i ruoli (atena. notte mi chiamano e/ sono colei che è buia./ per lungo tempo credetti avessero spento le luci/ e a tentoni ho misurato la stanza./ poi/ un giorno giunsi al fondo, ma invano: mancava/ l’interruttore./ così da allora/ per inventarne uno/ racconto solo storie menomate,/ corridoi isterici nel dormiveglia,/ mani che si aggrappano/ nel buio.//). Ma si tratta anche di una oscurità che porta alla perdizione, al disorientamento perenne: la già citata atena, che a tentoni misura la stanza; crisotemi, che diventa un sasso gettato nel fondo buio di un’icona; orfeo, che costruisce a ritroso la luna riversa e una mappa di stelle, nella deriva in cui è caduto; ifigenia, impigliata nelle reti come in una trappola per topi; antigone, conscia che non c’è più verso di tornare indietro. Ma soprattutto tiresia, che arriva a chiedersi se questo camminare non abbia davvero alcun senso.
È il mito che, impossibilitato a dare le risposte per le quali è stato creato, si vede costretto a interrogare sé stesso. Senza risposta.
La voce.
L’ambiguità – caratteristica irrinunciabile per la formazione di un mito – si manifesta qui in un apparente paradosso riguardante l’uso che i personaggi fanno della propria voce. Se per un verso sono proprio loro a intessere i fili delle narrazioni attraverso una pronuncia maniacalmente lucida ed esatta (chiusa in questo labirinto di disinfettante e anestesie sono io, ifigenia,/ lasciata menomata sulla spiaggia/ a fare da dimora ai grilli e alle bisce./ a vedere i clown disse che mi portava. eppure/ calcante mi strappò/ la bambola di mano/ e prese fra le dita i ferri chirurgici./ ma non finirono quello che avevano cominciato/ e al primo alito di vento le navi salparono/ lasciandomi agli occhi persino le bende. […]), dall’altro una delle difficoltà che maggiormente emerge dai loro discorsi è l’incapacità di comunicare correttamente. Le manifestazioni di tale disfunzione si possono posizionare entro una sequenza progressiva: atena può raccontare storie, ma solo menomate; orfeo balbetta ossessivamente il nome di euridice; la sintassi di aracne si sbreccia in gesti inconsulti; la paralisi di ifigenia le impedisce di spiegare; l’ alfabeto di crisotemi smette di essere usato, rendendola di fatto muta senza rimedio. Di contro, quando la comunicazione è possibile, essa sembra essere inevitabilmente portatrice di dolore: un dolore puramente fisico (clitemnestra. […] ma ho un tizzone ardente, sulla lingua/ che ti cerca nei tuoi passi deragliati/ e un ricordo che basterà ad ucciderti […]), un dolore psicofisico – quello della lontananza forzata – (euridice. […] perché ti perdi nelle parole del mattino […] e ritorni all’orrore dei tuoi giorni,/ a brancolare nella caligine dorata e indistinta dei vivi […]), fino ad arrivare a un dolore di ordine cosmico (cassandra. […] così ho cominciato a dire le menzogne più cupe,/ le assurdità più ridicole,/ mi sono messa a inventare/ disgrazie inverosimili, così,/ per gioco./ tanto valeva delirare fino all’estremo, a questo punto,/ e ho detto che il carro del sole/ non sarebbe più sorto. […] ma c’è una cosa che mi getta nel dubbio: che oggi/ tutti hanno preso a camminare/ chini sul marciapiede e arrancando/ cercano di indovinarne i confini./ dovunque/ si accendono lampioni in pieno giorno,/ si bloccano gli ascensori,/ si guardano gli orologi:/ sono anni ormai che è notte.//).
Il sonno.
L’intera sezione è pervasa da un senso di fluttuazione, di oscillazione tra il polo del sogno e quello della morte. La differenza tra i due termini è qui da intendersi soltanto da un punto di vista quantitativo: infatti come il sogno non conforta, la morte non spaventa. Ma è soprattutto nella gradazione dei grigi che si scoprono le ragioni dei personaggi. La parola sogno compare per due volte, e non a caso all’interno dei componimenti iniziali; era fatto di sogni/ il ponte su cui passarono i miei piedi/ senza saperlo, si legge in ofelia. Una transizione che si conclude in persefone, con le unghie di un sogno/ rimasto sepolto/ sotto le ceneri/ del buio . Da qui prende avvio tutta una serie di considerazioni su cosa sia effettivamente ciò che viene chiamato genericamente sonno, e interessa dire che sono gli stessi protagonisti a porsi il problema della sua natura. C’è chi non riesce a distinguere la fase di sonno da quella di veglia (persefone. il ronzio del televisore mi tiene sveglia./ o forse dormivo? […]; ma anche: aracne. pensavo di essere sveglia, ma passano i pompieri/ e apro gli occhi/ di soprassalto. […], chi sfrutta lo stato d’insonnia – seppur imposto – per tentare di riscattare la propria esistenza (penelope. ecco perché da allora trascorro le notti inesausta/ cercando di capire quale destino io debba leggere,/ quale sia il filo da bruciare,/ in che direzione i miei piedi possano procedere./ ecco perché da secoli/ continuo a/ tessere e disfare/ la tela.//), e chi, terrorizzato dall’idea di addormentarsi, mette in atto una soluzione drastica verso di sé (mi fa compagnia la luce azzurrina […] riportatemi dentro, non voglio più stare qua./ potete pure buttare la chiave,/ tanto i vermi/ tra poco/ mi corrodono il sonno./ stacco la fleboclisi,/ via il respiratore,/ con un punto esclamativo/ termino/ l’assedio delle mie subordinate.//) o verso gli altri (achille. […] ma questa notte niente più sonniferi, niente più/ nebbia./ della sua banda il figlio di priamo l’ho lasciato per/ ultimo. e/ questa notte/ lo seguo,/ lo branco,/ lo accieco,/ gli trafiggo il futuro in un giro di mura.//).
Un’ultima osservazione. Ecuba, l’ultimo dei personaggi che si incontra, è l’unica a possedere le tre caratteristiche di cui gli altri sono stati privati. Infatti la sua parola offende (sono una collana di mine accese sulla tua bocca/ e di rasoi che ti cancellano le labbra), non teme il sonno, anzi lo invoca (così mi hanno svegliata per l’autopsia; ma anche: le piaghe da decubito mi impediscono di riposare) e vive in un ambiente luminoso (la luce del pomeriggio entra attraverso le tapparelle). Eppure tra le tante tragedie la sua è la più tragica.
Conclusioni
Partendo dalla considerazione per cui la poesia erotica sia da intendersi come una forma di conoscenza, il passo successivo della riflessione è stato quello di individuare nei concetti di metamorfosi e di sacro due elementi che possono rispettivamente permettere un contatto con l’altro da sé e dare ordine a una condizione che per sua natura lo sovverte. Una modalità di conoscenza di questo tipo implica la costruzione di un linguaggio e di un immaginario comune, di una precisa ritualità e di un corredo significante di non detti. In altre parole, di una mitologia privata che va formandosi poco per volta, che connota le cose a seconda delle necessità.
Trattando il tema del mito, si è messo l’accento sulla varietà di elementi che possono essere utilizzati per costruirlo e sull’importanza svolta dall’onirismo nella mitopoiesi. Dall’analisi dei protagonisti delle narrazioni mitiche è emerso che a una ricchezza di caratteri corrisponde una tutto sommato omogeneità a livello profondo, che consiste nel tentativo di dare un senso al non senso della sofferenza. La molteplicità di maschere, la ripetizione quasi ossessiva di parole chiave (notte , buio , silenzio , sogno , sonno ecc.) fungerebbe da esorcismo, da strumento di controllo di ciò che viene nominato. In questo modo il mito viene riportato alla dimensione della vita, e quindi della conoscenza.
note
1 Mauro Giachetti, ” Le poesie ‘greche’ di Renzo Cremona ”
2 Qohèlet , I,2
3 Catullo, canto 5 , v. 1.
4 E’ interessante notare come il verbo appannare ritorni in un altra poesia, e ancora una volta riferito alla sfera semantica della cartografia (Bisanzio. […] mentre scruto carte/ e diari di bordo/ per trovare una rotta qualsiasi in una geografia appannata.// ).
5 E’ forte la vicinanza tematica con Catullo, canto 64, vv. 384-386: Praesentes namque ante domos invisere castas/ heroum et sese mortali hostendere coetu/ caelicolae nondum spreta pietate solebant. (Perchè gli Dei visitarono, un tempo, le pure dimore/ degli eroi, si mostravano alle famiglie degli uomini,/ abituali, quando la fede non era sdegnata.)
6 Che la predilezione per il regno vegetale sia da ricondurre a quel “ E’ dotato di sentimenti, […] come se fosse un merito averne ”?
7 Lo stretto legame tra radici e parola è magistralmente espresso dalla poesia d’apertura della raccolta La pergamena delle mutazioni : poeti. radici eravamo che attingevano luminose/ alle vene della terra,/ fertili campi su cui la balbuzie diventava/ sublime alfabeto. […].
8 Alfonso Traina, 1982 = Catullo, I Canti.
9 Cantico dei cantici , VI, 5.
10 Catullo, canto 84 , vv. 6-8.
11 J. Campbell 1995 = Il racconto del mito.
12 Forse non si tratta di un caso se appaiato con vangelo apocrifo ci sia il componimento minotauro.
13 “Mito e sogno vengono dallo stesso luogo, vengono da determinate percezioni che devono poi trovare espressione in forma simbolica” (J. Campbell 1995).
14 I personaggi sono: Ofelia, Cerbero, Persefone, Tiresia, Atena, Crisotemi, Orfeo, Euridice, Aracne, Clitemnestra, Ifigenia, Cassandra, Antigone, Achille, Penelope ed Ecuba.
15 Ne è una riprova il fatto che sia Atena, in quanto divinità, che Penelope, in quanto mortale, sono poste sullo stesso piano nel narrare le loro vicende.