è la notte un luogo
dove
tu sei fuoco appiccato al centro dell’impronta dei miei piedi
il luogo dove tu abiti segrete armonie indecifrate
e sgretoli
il senso delle nostre spade divaricate.
Pubblicazione: ottobre 2002
Editore: Edizioni del Leone (Spinea, VE)
Collana: Poesia
Codice ISBN: 88-7314-043-2
Immagine di copertina: La maschera con bandierina, di Paul Klee (1925).
Note: Qui di seguito viene presentata una selezione dei testi contenuti nella raccolta.
le braci.
anche a luci spente
so decifrare il tuo piede:
è quel passo
che danza
palpitando al centro del mio sangue
la forma che prende il silenzio
conficcato nel fuoco dei miei sensi riarsi.
orfeo.
la luna riversa e una mappa di stelle
a ritroso
costruisco
dalla deriva in cui sono caduto
da quando i miei denti mordono il passato
e le mie labbra
offese di silenzio
balbettano ossessivamente
il tuo nome
incomposto.
delle metamorfosi e d’altro.
in valli disabitate
s’inerpicava
il tuo ricordo. ma venne la notte
e la mia memoria oscillante
tu la estirpasti
quel giorno in cui il buio
ti sbarrò il passo.
poeti.
radici eravamo che attingevano luminose
alle vene della terra,
fertili campi su cui la balbuzie diventava
sublime alfabeto.
eppure
parole ci furono cucite alla bocca
perché meglio brillasse
di un fulgore spento.
così ora le nostre labbra rabberciate
sono altari di silenzio,
intime urla
di un fiore
attorto allo stupore.
se il tuo corpo riesco ad impararlo
a memoria,
mi chiedi?
hai una lettera che tengo tra i denti
ed una
che mordo coi piedi:
in mezzo sto io
e ti recito a memoria.
tutto il mio corpo
in un colpo
ripete il tuo nome.
hai il capo percorso da cespugli
e le mani da
foreste
e la tua bocca
conosce il linguaggio degli alberi.
lo capisco dal tuo corpo nudo
che respira fondo
l’amplesso con le mie radici,
lo sento da questo sangue
che nella notte percorre la tua pelle
sconfinata.
non è ancora sera e già
mi inerpico sul tuo territorio,
a ritroso
mi addentro
dove il sangue risuona sordo
la voce a cui non si comanda.
vanno attorno a te
voci scorticate
che nella notte s’inoltrano
fino dentro il mio passato e
mi ardono nelle vene
le tue parole insepolte,
accese come braci antiche e
piantate in forma di chiodi infetti,
come
nomi
che si pronunciano nelle tenebre
in liturgie sconosciute.
rituali.
hai labbra confinanti con la mia sete
e per bocca
un enigma
circoscritto da boschi selvatici.
vivendoti accanto
radici mi sono cresciute sotto i talloni
che ora abbracciano le tue
e ho come la sensazione
di sentire pronunciare il tuo sangue
nelle mie vene.
e questo
è quello che accade
quando sollevo il sudario
per vedere il tuo volto,
il momento in cui inciampo
nella coltre di nebbia
al di là dei sogni
in cui sono ricamati
i miei occhi
smarriti.
quando in sogno ci incontrammo dopo la caduta di bisanzio
notai che avevi già capelli
che non ricordavo più:
parlavi in un alfabeto irto di spine e
la barbarie del silenzio
ti aveva annebbiato gli occhi.
vecchie fotografie ingiallite
devono avermi costretto a dimenticare,
mi sono state insegnate le vertigini
e i giorni vengono trasformandosi
mano a mano che me ne allontano:
hanno ciascuno forma di uccelli notturni
con un ricordo nel becco
a rinfocolare l’ombra.
e se i miei piedi s’inoltrano nei boschi
qualche volta aggiusto le frequenze
e riprendo la tua stazione:
mi sembra una radio che parli una lingua straniera. lo so,
le mani che hai
non servono più a scrivere il mio nome e io
da lungo tempo
ho scelto di essere analfabeta. ma
ci sono giorni in cui
pergamene si srotolano nel buio della tua cattedrale
che hanno il palpito di parole dimenticate
e le mie labbra ammutoliscono
avvolte nel mistero
in cui bruciarono
un giorno
sulla soglia impronunciabile
delle nostre vene.
atena.
notte mi chiamano e
sono colei che è buia.
per lungo tempo credetti avessero spento le luci
e a tentoni ho misurato la stanza.
poi
un giorno giunsi al fondo, ma invano: mancava
l’interruttore.
così da allora
per inventarne uno
racconto solo storie menomate,
corridoi isterici nel dormiveglia,
mani che si aggrappano
nel buio.
aracne.
pensavo di essere sveglia, ma passano i pompieri
e apro gli occhi
di soprassalto.
sento odore di foglie marce
attorno a me e
la mia sintassi si sbreccia in gesti inconsulti
e isterie incontrollate
al centro di una nuova geometria
che non conosco.
cassandra.
dicono che il miglior modo per non essere creduti sia
raccontare la verità.
ho provato a spiegare che il corridoio
che abbiamo imboccato
finisce su scale senza gradini,
ma non mi ha creduto nessuno.
così ho cominciato a dire le menzogne più cupe,
le assurdità più ridicole,
mi sono messa ad inventare
disgrazie inverosimili, così,
per gioco.
tanto valeva delirare fino all’estremo, a questo punto,
e ho detto che il carro del sole
non sarebbe più sorto.
come sempre accade
non fui creduta.
questa volta a ragione, però:
avevo inventato tutto.
ma c’è una cosa che mi getta nel dubbio: che oggi
tutti hanno preso a camminare
chini sul marciapiede e arrancando
cercano di indovinarne i confini.
dovunque
si accendono lampioni in pieno giorno,
si bloccano gli ascensori,
si guardano gli orologi:
sono ormai anni che è notte.
achille.
non riesco a chiudere gli occhi.
da anni non posso più dormire.
al calare del sole sento i cani che latrano e,
non appena socchiudo le palpebre,
vedo cadaveri che galleggiano sotto la luna
e affondo di nuovo i piedi
nella bassa marea
e nella fanghiglia dello scamandro.
così, per curare l’insonnia
che da allora mi divora le notti
e le popola di incubi,
esco
ad ammazzarli.
ricordo ancora il giorno in cui lo vidi all’obitorio.
sulla fronte
gli germogliava la morte.
aveva il volto tumefatto, patroclo,
le labbra cancellate
e gli occhi colmi di buio.
non lo avevo ancora salutato ed
ettore stava già preparando gli aghi
con cui gli avrebbe cucito il nome sulla bocca.
‘solo i familiari’ hanno detto
all’ospedale.
nessun autore del pestaggio, nessun mandante.
in centrale hanno chiuso il caso,
il nostro passato è finito in prescrizione
e le suture di patroclo sono scomparse da ogni archivio.
ma questa notte niente più sonniferi, niente più nebbia.
della sua banda il figlio di priamo l’ho lasciato per ultimo. e
questa notte
lo seguo,
lo branco,
lo accieco,
gli trafiggo il futuro in un giro di mura.
penelope.
giunse un giorno atena e così mi parlò:
‘di questa tela che tessi vedi i cammini:
se guardi bene
ti accorgerai
che stai costruendo la strada della tua vita’.
la dea non mente:
guardo, infatti, e intravedo i primi passi di mio figlio,
ne riconosco il padre in un cavallo di legno,
vi leggo mappe tracciate e lunghi percorsi.
anche scogli, vedo, e un ritorno attardato al crepuscolo.
ne sono felice,
dopotutto gli dèi con me sono stati benigni.
fin qui la trama.
ma i conti non tornano perché,
se osservo l’ordito, ecco che
sotto le mie dita si disegnano
telemaco divelto dall’aratro,
odisseo fuggito per il rimorso,
case che crollano e
voci che si affollano nella notte.
e non sono ancora arrivata a metà che già
vedo una mano scivolare bianca
dalla lettiga di una sala operatoria.
così mi fermo.
non oso risalire l’avambraccio e vederne il volto.
ecco perché da allora trascorro notti inesausta
cercando di capire quale destino io debba leggere,
quale sia il filo da bruciare,
in che direzione i miei piedi possano procedere.
ecco perché da secoli
continuo a
tessere e disfare
la tela.
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